Antichi Mestieri
24 Maggio 2021Fino a pochi decenni fa esistevano lavori oggi scomparsi e la vita di tanta gente era scandita dalla fatica fisica e dallo sfruttamento dell’ingegno.
Oggi molti mestieri, un tempo importanti e richiesti, sono stati sostituiti dall’idea moderna del “comprare” e non del riparare e conservare ma, in un passato non molto lontano, essi erano legati all’artigianato, all’agricoltura, alla pesca e venivano tramandati da padre in figlio per mezzo del commercio itinerante attraversando i paesi della Piana.
I giovani d’oggi non hanno conosciuto gli arrotini, i carrettieri, la mammana/la mammina; queste figure rappresentano un patrimonio di memorie da ricordare, un “come eravamo” ricco di nostalgia.
Ecco alcuni antichi mestieri
“L’Arrotino”: “Donne, donne è arrivato l’arrotino” si sentiva a decine di metri di distanza. Era uno dei quei lavori itineranti lungo le vie dei piccoli paesi. Lui attendeva in piazza o sotto le case e attendeva che le donne gli portassero coltelli e forbici da affilare; riparazioni che venivano effettuate con una mola girata da un pedale.
“L’aggiusta piatti”: riparava i piatti rotti, i vasi da fiore, le zuppiere e ogni oggetto in ceramica o terracotta. Faceva due buchi ai cocci, li legava insieme con un filo di ferro a mo’ di gancio, infine passava un po’ di colore per coprire la riparazione.
“’U Capiddhàru”: urlando diceva: “U Capiddharu passa, cagnàtivi ì capiddhi!”. Le donne facevano capannello attorno all’ambulante e gli consegnavano batuffoli di capelli; in cambio ricevevano denaro o qualche oggetto di uso casalingo.
“Il robivecchi”: vendeva di tutto, dai piatti agli abiti; girava raccogliendo roba vecchia: vestiti malandati, scarpe rotte e dava in cambio qualche piatto o ciotola. Per invitare le donne ad uscire di casa, gridava: “Si pigghia robba vecchia!!!”. Il suo passaggio era molto atteso poiché consentiva alle casalinghe di liberarsi di cose inservibili ricavando qualche oggetto utile.
” ‘U sapunaru”: girava i paesi barattando il sapone con la cenere prodotta bruciando la legna nei camini. Una saponaia famosa ormai scomparsa era ‘a Santannota (di Sant’Anna).
“‘U Vandiaturi”: la diffusa scolarizzazione con conseguente scomparsa dell’analfabetismo e, soprattutto, l’avvento dei mezzi di comunicazione moderna, hanno determinato la scomparsa di questa figura, tra le più caratteristiche e popolari della tradizione. Accompagnato talvolta dal battito del tamburo, il banditore annunciava le novità importanti. Gli avvisi potevano riguardare anche una comunicazione sanitaria o amministrativa dell’autorità, come ad esempio: “Sentiti, sentiti, sentiti. Lu sindacu manda a diri ca dumani mancherà l’acqua. Fimmini, inchitivi tielli e i buttigghi ca non si sapi quando torna l’acqua!”.
“I cantastorie e i contastorie”: andavano in giro a cantare e declamare “storie” per paesi e città; si fermavano in una piazza, all’angolo di una strada, in un mercato dove c’era tanta gente di passaggio e lì incominciavano a cantare, a suonare, a esibire i cartelloni. I contenuti narrati potevano essere tragici, allegri, dei paladini di Francia e la gente si commuoveva o sorrideva ascoltando le vicende evocate.
“‘U scarparu”: è un mestiere che sta per scomparire ma un tempo era molto richiesto. Si tratta di una vera e propria arte. Il calzolaio realizza scarpe da donna e da uomo, ma la parte più consistente è rappresentata le riparazioni. La bottega del calzolaio era un punto di ritrovo per scambiare quattro chiacchiere.
“‘U furgiaro”: attorno a quest’artigiano c’era sempre un via vai di persone che gli commissionavano lavori. Con incudine, tenaglie, martelli e mazze, il fabbro modellava le barre di ferro incandescenti, realizzando accette, falci, picconi, zappe e mannaie. Il fuoco doveva essere vivo e ininterrotto.
“A Lavandara”: moltissime donne, nel dopoguerra, per portare a casa un po’ di soldi, si offrivano a servizio dei signori che potevano permettersi una “lavatrice umana”. Andavano prima presso le famiglie a raccogliere i panni sporchi da lavare e poi si recavano alle vasche lavandare (a Palmi si trovavano al Rione Mauro o in Contrada Acqualive oppure nel cosiddetto “Vaddhuni”, un lungo avvallamento nel quale scorreva un fiumiciattolo proveniente da sant’Elia). Dopo aver finito di lavare, i panni venivano stesi sull’erba ad asciugare. I ferri del mestiere erano la cenere del camino, l’acqua del torrente e tanto “olio di gomito” per strofinarli e sbatterli sulle pietre. Spesso era necessario far bollire la biancheria sporca ed a questo proposito venivano preparate le “caddhare” per i capi più grandi, in questo modo si otteneva la sterilizzazione del bucato.
“A Maistra Sarta”: questa categoria suscitava ammirazione, interesse e rispetto ed era un mestiere molto ambito. Le “Madame” erano esperte nel cucito ed avevano accanto tante ragazze che aspiravano a diventare sarte. Le “Maistre” cucivano su misura ed era un vanto per loro creare soprattutto gli abiti da sposa.
“A tessitrici”: grazie alla sua bravura, dava consistenza di tessuto alla canapa con la quale veniva realizzata la maggior parte degli indumenti o dei tappeti lavorati ma, soprattutto, il “tocco di tela”, un tessuto lungo vari metri e avvolto su se stesso, da cui venivano tagliati i pezzi del corredo della sposa: lenzuola, tovaglie da tavola, asciugamani etc…
“’U Sferracavaddhu”: era anche un veterinario alla bisogna per la sua esperienza, oltre che maestro di fucina, ferrava cavalli, muli, asini. Sostituiva gli zoccoli degli animali con un lavoro lungo e meticoloso.
“Lo Scalpellino”: questo artigiano aveva finezza e destrezza particolare con lo scalpello, infatti estraeva la pietra per farne macine, colonne delle chiese, per la pavimentazione di strade e piazze. Palmi è stata pavimentata così. Si ricordano due fratelli scalpellini molto bravi: Giuseppe e Pasquale Grasso di Palmi.
“L’umbrillaru”: aveva una bottega dove aggiustava di tutto ma soprattutto ombrelli; aveva un’attrezzatura costituita da pinze, filo di ferro, stecche di ricambi, pezzi di stoffe, aghi, filo, spaghi etc. Oggi questo mestiere può sembrare assurdo però, era ancora in auge fino agli anni sessanta-settanta, quando la mentalità del tempo tendeva a non buttare via nulla che potesse ancora servire.
“’U caddhararu”: lavorava il rame delle casseruole, dei secchi e delle “caddare“. Fabbricava pentole, caldaie e altri oggetti di metallo. Quando una “caddara” si sfondava o si ammaccava, “U caddhararu” interveniva per rimetterla a nuovo. All’interno delle “caddare“, stendeva sulla superficie rendendola liscia ed uniforme, con una matassa di canapa strofinata.
“‘U sensali”: era il mestiere che oggi potremmo definire del mediatore, egli o ella godeva di considerazione e rispetto: combinava fidanzamenti e matrimoni, proponeva terreni e case o vendite di prodotti agricoli e riappacificava famiglie.
“A Mammana/ ‘A Mammina”: aveva un ruolo molto importante: svolgeva tutte le mansioni dell’attuale ostetrica. Fino agli anni Sessanta le donne non venivano ricoverate negli ospedali o nelle cliniche ma partorivano in casa, aiutate appunto dalla mammana/mammina, chiamata anche levatrice. A lei spettava il compito di visitare le donne gravide e di farle partorire. Solitamente era una vera e propria istituzione, una donna a cui affidare se stesse e la vita dei propri figli; talvolta aveva un ruolo di consigliera. Con l’avvento della nuova figura professionale dell’ostetrica questo mestiere è scomparso, conservando però il ricordo di queste donne persone stimate, rispettate e molto vicine ai problemi e alle gioie del mondo femminile di un tempo.
Dovremmo fare il possibile affinché questi antichi mestieri rimangano nei nostri ricordi per poterli tramandare alle future generazioni. Palmi e il circondario godevano di artigiani senza dubbio tra i più bravi ed apprezzati nella Piana. Ormai il mondo corre ad altissima velocità e oggi sono i nipoti che insegnano ai nonni l’utilizzo delle nuove tecnologie e tutto ciò sta distruggendo in modo rapido le memorie del passato.
Francesco Saletta